Addetto Primo Soccorso: chi è

Il Testo Unico per la Sicurezza sul Lavoro (D. Lgs. 81/08) prevede una serie di figure che devono essere obbligatoriamente presenti all’interno di un’azienda, al fine di garantire un elevato livello di sicurezza ai dipendenti, sia dal punto di vista lavorativo che di salute. Tra queste figure, vi è l’Addetto al Primo Soccorso. La sua nomina spetta al datore di lavoro, in quale dovrà capire chi tra i lavoratori sia in grado di intervenire in caso di emergenza prima dell’arrivo del personale qualificato. Non occorre che la figura scelta abbia qualifiche mediche, ma è importante che sappia intervenire in maniera corretta.

Come la valutazione dei rischi, anche la gestione di un buon sistema di soccorso all’interno di un’azienda è affidato al datore di lavoro, che se ne assume la piena responsabilità. Il Decreto Ministeriale 388/03 disciplina il servizio di primo soccorso aziendale, fornendo diverse informazioni importanti come la classificazione delle aziende, le attrezzature da mettere a disposizione e il tipo di formazione che un addetto di primo soccorso deve possedere. Tuttavia, la legge non specifica il numero esatto di addetti da nominare per il primo soccorso. Si limita, semplicemente, a precisare che tale figura sarà scelta in funzione della tipologia e dimensioni dell’azienda, in base al numero dei lavoratori presenti e ai fattori di rischio.

Prima di continuare la nostra spiegazione, è bene fare una precisazione su cosa sia esattamente il primo soccorso. Con questo termine, si fa riferimento all’insieme di atti effettuati dal personale non sanitario di un’azienda prima dell’arrivo del personale qualificato. Tale termine, tuttavia, non deve essere confuso con quello di “pronto soccorso”, in quanto si tratta di pratiche diverse. L’intervento dell’Addetto Primo Soccorso si verifica nei casi di pericolo in lavori svolti in sotterranei, lavori in edilizia o lavori in cantiere. In questi casi, l’addetto al primo soccorso deve intervenire e mettere in pratica tutte le sue conoscenze in materia di primo soccorso. Sono richieste anche nozioni di base su patologie e traumi sul posto di lavoro.

I compiti principali dell’Addetto al Primo Soccorso

I compiti principali dell’Addetto al Primo Soccorso sono tanti. Egli dovrà essere in grado capire l’infortunio subito dal lavoratore ed intervenire immediatamente per la dovuta assistenza, accertandosi delle sue condizioni psico-fisiche. Dovrà, inoltre, chiamare con rapidità i soccorsi e le autorità competenti per fornire loro le informazioni di cui avranno bisogno come ad esempio il luogo dell’infortunio, il numero dei soggetti coinvolti e le condizioni di salute di essi. L’addetto al primo Soccorso avrà anche il compito di posizionare in maniera corretta l’infortunato, al fine di evitare ulteriori danni e prevenire ulteriori pericoli.

Se dovesse essere necessario, potrà effettuare il massaggio cardiaco e la respirazione artificiale. Infine, egli avrà la responsabilità di assicurarsi che la cassetta del pronto soccorso abbia tutto l’occorrente necessario in caso di emergenza, che tutti i prodotti al suo interno non siano scaduti e nel caso ha il compito di rifornirla. Nei casi in cui è necessaria un’evacuazione degli edifici, sarà fondamentale la comunicazione ai soccorsi per il trasporto dei feriti alle strutture ospedaliere. I compiti principali dell’Addetto al Primo Soccorso sono occasionali e non devono mai superare il limite consentito. Egli, infatti, normalmente non conosce le tecniche e pratiche specifiche e pertanto un eccesso potrebbe causare ulteriori peggioramenti delle condizioni dell’infortunato.

Formazione per un Addetto al Primo Soccorso

Scegliere una persona qualificata al primo soccorso è molto importante per un’azienda, in quanto rappresenta una misura di prevenzione per la salute e sicurezza dei lavoratori. Infatti, in caso di emergenza, è bene che i lavoratori abbiano conoscenze specifiche dei traumi dovuti ad un incidente sul lavoro, nonché la capacità di intervenire in caso di estrema urgenza e necessità. Pertanto, è consigliabile che il datore di lavoro non proceda esclusivamente alla formazione di un solo lavoratore al primo soccorso, ma garantisca una formazione adeguata a tutto il personale aziendale per una sorveglianza sanitaria. 

Il datore di lavoro, tra i vari compiti cui è obbligato a rispettare, ha anche quello di redigere alcuni documenti, come il documento di Valutazione dei Rischi. Quest’ultimo servirà a fornire una valutazione dei rischi possibili all’interno dell’azienda e specificare le eventuali misure da adottare in caso di pericolo, per garantire la sicurezza dei lavoratori. Questo documento ha lo scopo principale di ridurre al minimo i casi di infortunio sul posto di lavoro.

I lavoratori svolgeranno le ore di formazione attraverso le spiegazione del personale medico autorizzato, dividendole in una parte teorica e una pratica, in moda che il lavoratore sia capace di prestare assistenza nel caso si verifichino gravi incidenti sul posto di lavoro. Una volta effettuata la nomina dell’addetto o addetti al primo soccorso, quest’ultimi riceveranno le dovute nozioni relative alla salute e sicurezza sul lavoro. Oltre alla teoria, sono previste esercitazioni pratiche per apprendere tecniche specifiche come ad esempio il massaggio cardiaco. Alla fine del corso è previsto una verifica delle competenze e l rilascio di un attestato.

Sanificazione degli Ambienti di Lavoro: quando e come farla

A seguito della diffusione della pandemia da Covid-19, la sanificazione degli Ambienti di Lavoro è diventata una procedura indispensabile e necessaria da attuare. Tutti i datori di lavoro sono obbligati ad adottare una serie di misure atte a garantire la pulizia e sanificazione di superfici e ambienti interni a tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. Nello specifico, è una procedura che va oltre la pulizia ordinaria e che prevede l’impiego di prodotti adatti e non tossici, riconosciuti dal Ministero della Salute.

Il D.M. 7, n.274/1997 definisce le attività di panificazione come un “complesso di procedimenti e operazioni atti a rendere sani determinati ambienti mediante l’attività di pulizia e/o di disinfezione e/o di disinfestazione ovvero mediante il controllo e il miglioramento delle condizioni del microclima per quanto riguarda la temperatura, l’umidità e la ventilazione ovvero per quanto riguarda l’illuminazione e il rumore”. Quindi, la sanificazione comprende una serie di attività che servono ad eliminare eventuali batteri ed agenti contaminati come la rimozione dello sporco, la detersione, la disinfezione e l’aerazione.

Dunque, la sanificazione di un luogo di lavoro si distingue in pulizia, quando si tratta di una semplice rimozione di polvere sporco vario ad oggetti, superfici ecc utilizzando acqua e prodotti detergenti. Invece, disinfezione si tratta di un’attività che distrugge i microrganismi patogeni su tutte le superficie utilizzando prodotti disinfettanti di natura chimica o attraverso l’impiego di macchine. Questo genera diversi vantaggi, tra i quali: riduce la quantità di batteri e virus; elimina funghi e funghi; toglie cattivi odori e allergeni; abbatte gli inquinanti chimici e biologici; migliora la quantità dell’aria e dell’attività produttiva.

Prima di procedere con la sanificazione, è necessario effettuare una pulizia delle superfici e oggetti con acqua e detergenti neutri. È opportuno disinfettare solo con prodotti ad azione virucida, approvati dal Ministero della Salute secondo le norme in vigore. È necessario garantire sempre un adeguato tasso di ventilazione e ricambio dell’aria per la sicurezza sul lavoro. Affinchè la sanificazione sia valida e venga fatta nel modo corretto, è necessario utilizzare prodotti adatti, autorizzati e registrati come disinfettati ad azione virucida, autorizzati dal Ministero della Salute e verificati dall’Istituto Superiore di Sanità. Pertanto, è importante tenere sotto controllo le diciture delle etichette riportate sui prodotti: dovrà esserci scritto “igienizzanti per gli ambienti”. Di contro, bisognerà evitare di mescolare prodotti diversi tra di loro e sarà necessario indossare dispositivi di protezione individuale (DPI).

Sanificare gli ambienti di lavoro: a chi rivolgersi

Il datore di lavoro che intende procedere a sanificare gli ambienti di lavoro, attraverso la semplice pulizia o igienizzazione, allora dovrà rivolgersi ad un’impresa di pulizia. Per quanto riguarda la sanificazione, invece, quest’ultima dovrà essere effettuata da professionisti del settore, competenti e qualificati a svolgere tale attività che richiede l’uso di attrezzature e prodotti specifici. Consigliamo di affidare questo tipo di attività a ditte esterne, in grado di effettuare una valutazione dei rischi. 

I lavoratori addetti dovranno avere un’adeguata formazione per quanto concerne l’impiego dei dispositivi da impiegare e l’uso dei prodotti specifici. A partire dal 6 aprile 2021 è entrato in vigore un nuovo protocollo anti-contagio Covid-19, per prevenire la diffusione del virus. Tra le varie misure adottate, meritano particolare attenzione quelle dedicate alla pulizia e sanificazione nelle aziende. In particolare, il protocollo approvato prevede una pulizia giornaliera e la sanificazione dei locali e dell’attrezzatura presenti sul posto di lavoro. Inoltre,se all’interno dell’azienda si è verificato un caso di positività da Covid-19, bisognerà procedere alla sanificazione degli ambienti e alla ventilazione delle varie aree.

A fine turno di lavoro, occorre procedere con la disinfezione di schermi, tastiere, mouse con determinati detergenti; nelle aziende con sospetto Covid, oltre la pulizia, sarà richiesta una sanificazione straordinaria degli ambienti. Una volta terminato tutto il processo di sanificazione, è necessario smaltire in maniera adeguata i rifiuti utilizzati (rifiuti pericolosi) come guanti monouso, mascherine, camici ecc ecc. il processo di sanificazione verrà registrato all’interno di un registro, che verrà aggiornato ogni qualvolta venga effettuata la sanificazione.

Per sanificare gli ambienti di lavoro, come abbiamo visto, è richiesto l’uso di particolari prodotti che contengono: ipoclorito di sodio (candeggina o varechina), etanolo o alcol etilico; perossido di idrogeno (acqua ossigenata). Tale sanificazione dovrà avvenire periodicamente, secondo le caratteristiche dell’azienda. Per questo, è bene predisporre tale procedure a persone esperte in grado di valutare la miglior tecnica. Prima di procedere, l’ambiente dovrà essere sgombro in quanto le sostante impiegate, seppur gas naturale impiegato in minime quantità, potrebbe provocare danni alle vie respiratorie di un essere umano. Sarà il datore di lavoro a decidere ogni quanto tempo effettuare la sanificazione degli ambienti di lavoro. Il dipendente potrà effettuare interventi di pulizia della propria postazione o attrezzatura utilizzata con l’impiego, sempre, di prodotti e dispositivi di protezione individuali previste dalla normativa.

Agenti chimici pericolosi: sicurezza sul posto di lavoro

Il rischio di agenti chimici sul posto di lavoro è molto diffuso. A differenza di quanto si possa pensare, queste sostante non sono rintracciabili solo all’interno di industrie chimiche e raffinerie o all’interno di laboratori scientifici, ma esse possono trovarsi anche in vasti settori dell’attività lavorativa. Gli agenti chimici, infatti, sono tra le principali cause di rischio, di cui il Datore di Lavoro è obbligato a prendere misure di prevenzione, atte a tutelare la salute e sicurezza sul lavoro.

Tra le varie aziende dove è possibile ritrovare prodotti potenzialmente pericolosi vi sono ad esempio: industrie cosmetiche, meccaniche, alimentari, edilizia, tessile, imprese di pulizia o ancora tipografie. Ma cosa si intende per agente chimico? Con questo termine si fa riferimento a tutte quei composti chimici che potenzialmente possono essere considerati nocivi e che vengono utilizzate o smaltite in qualsiasi attività lavorativa. Quest’ultimi si dividono in due classi:

  • Agenti con proprietà pericolose di tipo chimico e fisico, cioè prodotti infiammabili, esplosivi, corrosivi;
  • Agenti con proprietà tossicologiche, distinti in sostanze irritanti, sensibilizzanti, nocive, tossiche e cancerogene.

La differenza tra le due classi sta nel fatto che la prima nella maggior parte dei casi genera infortuni sul posto di lavoro, mentre la seconda genera varie malattie. Per quanto riguarda la Normativa, il Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (D.Lgs. 81/2008 e s.m.i.), stabilisce “misure generali e specifiche di tutela e obblighi per i datori di lavoro e i lavoratori” suddivisi in tre gruppi: protezione da agenti chimici, protezione da agenti cancerogeni e mutageni, protezione da rischi connessi all’amianto.

Uno strumento per l’immediata valutazione dei rischi su una sostanza chimica è costituito dall’etichettatura, in quanto in essa vengono definite nove diverse tipologie di rischio associate alle proprietà della sostanza. In generale, sono simboli di colore bianco con una cornice rossa che ne indicano il pericolo. I lavoratori che sono esposti ad agenti chimici pericolosi saranno sottoposti a sorveglianza sanitaria che verrà effettuata prima che il lavoratore inizi la sua nuova attività lavorativa; una volta all’anno o con periodicità diversa secondo quanto stabilito dal medico competente; in seguito alla fine del rapporto di lavoro.

Valutazione del rischio ad agenti chimici

Un agente chimico presente sul posto di lavoro genera una condizione di rischio. È a tal proposito che il datore di lavoro “determina preliminarmente la presenza nell’ambiente di lavoro di agenti chimici pericolosi, facendo un accurato censimento di tutte le sostanze e miscele utilizzate nel ciclo di lavoro e controllando la loro classificazione, etichettatura e le informazioni riportate nelle schede dati di sicurezza o desumibili da altre fonti di letteratura (ad es. Banche dati chimico-fisiche, tossicologiche ecc.)”. Dunque, il rischio non è altro che la probabilità di quest’ultimo di manifestarsi durante l’uso o l’esposizione di tali sostanze.

Distinguiamo tre tipologie di rischio:

  • Rischi per la sicurezza: pericoli fisici derivanti dagli agenti chimici;
  • Rischi per la salute: pericoli per la salute dell’uomo;
  • Rischi per l’ambiente: effetti che una sostanza o miscela una volta immessa può provocare all’ambiente.

Il datore di lavoro avrà l’obbligo di tenere in considerazione i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori secondo alcuni fattori, quali: livello, tipo e durata dell’esposizione; proprietà pericolose degli agenti chimici; valori limite di esposizione professionale o valori limite biologici; effetti delle misure preventive e protettive adottate o da adottare; soluzioni da adottare in caso di pericolo.

Stabiliti questi fattori, la valutazione del rischio ad agenti chimici si articola in tre fasi:

  • Valutazione del pericolo: bisogna eseguire un’analisi della scheda di sicurezza del prodotto. Su quest’ultimo, infatti, saranno riportate e descritte tutte le proprietà pericolose della sostanza. È importante che tale elenco sia il più chiaro e preciso possibile e sopratutto sempre aggiornato;
  • Valutazione dell’esposizione: valutazione delle modalità attraverso le quali i lavoratori rischiano il contatto con la sostanza pericolosa, la frequenza dell’utilizzo di tale sostanza, la quantità massima esposta all’ambiente e il suo assorbimento nell’organismo umano;
  • Caratterizzazione del rischio: valutare le possibili misure di protezione e sorveglianza sanitaria da attuare in caso di situazioni di pericolo.

Al termine di tale valutazione, si potranno ottenere quattro possibili situazioni: rischio basso per la sicurezza ed irrilevante per la salute; rischio basso per la sicurezza e non irrilevante per la salute; rischio non basso per la sicurezza ed irrilevante per la salute; rischio non basso per la sicurezza e non irrilevante per la salute.

Il rischio basso per la sicurezza “è associato alla salvaguardia dell’integrità fisica del lavoratore da effetti acuti e immediati, quali un infortunio o le conseguenze di una breve esposizione”. Mentre, il rischio irrilevante per la salute “è associato a condizioni di lavoro nelle quali l’esposizione agli agenti chimici pericolosi è ampiamente al di sotto dei valori limite di esposizione individuati dalla normativa, in modo da tutelare la salute dei lavoratori”.

Lavoro negli spazi confinati: Caratteristiche e norme

Svolgere un’attività lavorativa, di qualsiasi tipo, include diversi fattori di rischio. Quest’ultime dipendono dalla mansione svolta, dalla struttura dell’ambiente dove di opera, dalle attrezzature e macchinari impiegati. In tal senso, il datore di lavoro ha degli obblighi definiti nel Testo Unico sulla salute e sicurezza sul posto di lavoro. In questa guida, ci occuperemo di analizzare in particolare il lavoro negli spazi confinati, cioè tutti quegli ambienti che presentano almeno un fattore di rischio accertato e che possono provocare situazioni di rischio quali infortuni gravi o seri pericoli alla vita di un lavoratore. I rischi che comunemente si incorrono in uno spazio confinato sono legati a cadute dall’alto, asfissia, ispirazione di sostante tossiche, annegamento, carenza di ossigeno, espansioni e condizioni climatiche non ottimali.

Le caratteristiche che contraddistingue uno spazio confinato sono: varchi di accesso limitati con una ventilazione scarsa che, unita alla presenta di sostanze chimiche pericolose, comporta un’elevata condizione di rischio morte o infortunio grave. Vista l’elevata condizione di rischio che questi posti di lavoro determinano, si è resa necessaria attuare una normativa che potesse regolare il lavoro in tali ambienti.

La normativa che regolamenta il lavoro negli spazi confinati è contenuta nel D. Lgs. 81/08, secondo cui si esplicano uno serie di divieti, obblighi e misure preventive atte a salvaguardare incidenti negli ambienti confinati. In particolare, l’art. 66 vieta l’accesso ai lavoratori in luoghi dove potrebbero esserci gas nocivi, senza che sia stata effettuata un controllo mirato che accerti l’assenza di pericolo per il lavoratore stesso. Se le condizioni atmosferiche sono incerte, il lavoratore per lavorare in questi ambienti dovrà munirsi di sistemi di protezione come cinture di sicurezza per tutta la durata dell’attività lavorativa.

Per quanto riguarda le vie di fuga, tale articolo dispone: “l’apertura di accesso a detti luoghi deve avere dimensioni tali da poter consentire l’agevole recupero di un lavoratore privo di sensi”. Dunque, accessi che garantiscano una via di fuga al lavoratore e ai soccorritori. Il D. Lgs. N° 81 del 2008, inoltre, individua anche dei luoghi dove la vita del lavoratore è messa in pericolo e detta delle regole per svolgere l’attività di lavoro in piena sicurezza. Si tratta di silos, canalizzazioni, vasche, serbatoi ecc. I lavoratori che operano all’interno di questi ambienti sono tenuti ad essere addestrati, dunque a seguire dei corsi di formazione a riguardo.

Situazioni di rischio in ambienti confinati

Quando si lavora all’interno di spazi confinati, il rischio di incorrere in infortuni gravi è elevato. Con esso anche la difficoltà delle procedure di soccorso da attuare nella gestione dell’emergenza qualora capitasse un incidente. Il D.P.R. 177/11 ha stabilito che “deve essere adottata ed efficacemente attuata una procedura di lavoro diretta a eliminare o, ove impossibile, ridurre al minimo i rischi propri delle attività in ambienti confinati”, che comprenda l’organizzazione dell’eventuale fase di soccorso e di coordinamento con il sistema di emergenza del Servizio sanitario nazionale e dei Vigili del Fuoco. È importante, dunque, una buona organizzazione delle fasi di emergenza e, di conseguenza, l’elaborazione di piani operativi di sicurezza.

Per prima cosa, sarà necessario definire i flussi comunicativi sia tra i lavoratori che tra gli addetti esterni. Una buona comunicazione garantisce un’attivazione più immediata delle procedure di emergenza e soccorso. Tra gli obblighi previsti dal D.P.R. 177/11 c’è quello di munirsi obbligatoriamente dei necessario D.P.I. e attrezzature di sicurezza, come autorespiratori, rivelatori di gas nocivi o infiammabili, sistemi di soccorso e/o recupero. Gli addetti ai lavori che operano in questi ambienti devono essere esperti cioè devono aver maturato un’esperienza triennale in spazi confinati o in ambienti sospetti di inquinamento.

È importante, inoltre, che il committente dei lavori informi i lavoratori circa i rischi presenti nell’ambiente, sulle caratteristiche di quest’ultimo e sulle varie misure da adottare in caso di situazioni emergenziali. Il datore di lavoro deve anche nominare una figura competente in materia di sicurezza, di modo da vigilare e coordinare le operazioni di lavoro. Se è prevista dalla valutazione dei rischi, i lavoratori devono essere muniti di attrezzature e strumenti dotati di sistema allarme, che siano in grado di misurare la presenza di ossigeno e le relative percentuali di sostanze tossiche o infiammabili. Questa attrezzatura faciliterà, così, le operazioni di soccorso o evitare incidenti che potrebbero avere risvolti tragici.

Attrezzatura da lavoro negli spazi confinati

Tra tutte le attrezzature che possono essere adottate, non c’è dubbio che i D.P.I. rappresentino quelle più importanti. Per definizione, i DPI sono “qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo”. Dunque, il lavoratore è obbligato a utilizzarli sempre, a seconda del tipo di rischio nello svolgimento della mansione che quest’ultimo è tenuto a fare.

Sul mercato esistono tantissimi DPI, adatti a diverse esigenze come ad esempio elmetti di protezione, occhiali protettivi, indumenti protettici, scarpe di sicurezza, autorespiratori e tanti altri. In particolare, quest’ultimi giocano un ruolo fondamentale quando si lavora in spazi confinati. La protezione delle vie respiratorie è necessaria soprattuto quanto si lavora in spazi piccoli con carenza di ossigeno o con con temperature elevate, quando sono presenti fumi di metalli o polveri vari. È importante, infine, che ogni DPI sia dotato di certificazione CE, di modo da garantirne la conformità.

HACCP: che cos’è la Normativa sulla Sicurezza Alimentare

Il termine HACCP è l’acronimo in italiano di “Analisi dei rischi e dei punti critici di controllo”, un sistema di controllo e monitoraggio di tutte le fasi di manipolazione degli alimenti, introdotta dal Legislatore per garantire la sicurezza e l’igiene dei servizi per prevenire il rischio di contaminazione. Si tratta, in definitiva, di un sistema di controllo per eliminare ogni forma di rischio, come ad esempio di batteri, nella produzione dei vari alimenti. Per fare ciò, l’HACCP tiene conto di tutte le fasi del ciclo produttivo quindi: fabbricazione, trasformazione, confezionamento, deposito, trasporto, distribuzione, preparazione, manipolazione, vendita e consumo.

Con l’emanazione di norme a livello comunitario, è stato stabilito l’obbligatorietà da parte delle aziende del settore alimentare di individuare i possibili pericoli associati a tale processo produttivo, evidenziandone ogni criticità e pericolosità. Il sistema HACCP fu introdotto per la prima volta nel 1960 per volere della NASA, in modo tale da assicurare la totale assenza di contaminazioni chimiche e biologiche all’interno degli alimenti destinati agli astronauti in missione sullo spazio. Nonostante il passare degli anni e dei relativi cambiamenti nel settore dell’igiene e della microbiologia, ad oggi tale sistema appare sostanzialmente invariato.

In particolare, nel 2006 è entrato in vigore il Regolamento CE 852/2004 con il quale sono state previste sanzioni per chi non rispetta tale norma. Esso si basa su sette principi cardini:

  1. Analisi e identificazione dei pericoli e dei rischi associati alle fasi di produzione alimentare;
  2. Determinazione dei Punti Critici di Controllo (CCP);
  3. Individuazione dei limiti critici per ogni CCP;
  4. Determinazione delle procedure di monitoraggio per ogni CCP;
  5. Determinazione ed applicazione delle eventuali azioni correttive;
  6. Determinazione delle procedure di verifica atte a valutare il corretto funzionamento del piano HACCP;
  7. Predisposizione di un sistema di gestione della documentazione relative all’azienda.

L’adozione di tale sistema basato sui principi dell’HACCP sono molto importanti per garantire la sicurezza alimentare. Dunque, ogni azienda del settore agroalimentare ha l’obbligo di adottare tale Piano, tenendo conto che una corretta applicazione si basa sull’impegno e coinvolgimento dei responsabili di produzione, ma soprattutto dai singoli operatori alimentari.

Cosa contiene il documento HACCP

Tutti coloro che operano nel settore alimentare sono tenuti per Legge a redigere il documento HACCP. Tale documento dovrà essere elaborato da una persona esperta in materia sicurezza alimentare. In esso saranno contenute diverse informazioni fondamentali sul piano igienico sanitario, quali:

  • Dati relativi all’azienda;
  • Rischi presenti durante la fase produttiva;
  • Le procedure d’igiene adottate;
  • Le misure di sicurezza da attuare;
  • Stabilire ruoli e responsabilità;
  • Descrizione dei prodotti impiegati e la tipologia di materia prime usate;
  • Analisi igienico-sanitarie dell’azienda;
  • Punti critici di controllo;
  • Formazione del personale.

Il manuale HACCP va redatto secondo la tipologia di attività e la struttura dell’azienda. Serve, pertanto, ad elaborare una valutazione dei rischi sul posto di lavoro e specificare le misure per eliminare o ridurre al minimo eventuali rischi. Una volta redatto, tale piano deve essere tenuto all’interno dell’azienda ed essere sempre accessibile nei casi, ad esempio, di ispezione igienico sanitaria. Il documento dovrà essere aggiornato ogni qualvolta quest’ultimo subisce cambiamenti, come la sostituzione di eventuali macchinari di produzione, assunzione di nuovi lavoratori, cambio del luogo fisico della sede, cambio dei processi di produzione.

Corso di formazione HACCP

Per lavorare nel settore alimentare è necessario essere in possesso dell’attestato HACCP. Tale attestato può essere rilasciato seguendo un corso di formazione HACCP in materia di sicurezza e igiene alimentare. È obbligatorio per tutti coloro che hanno a che fare con la lavorazione e preparazione degli alimenti come cuochi, pizzaioli, pasticceri ecc, ma è obbligatori anche per chi non ha a che fare direttamente con gli alimenti come camerieri, lavapiatti, magazzinieri ecc. Infine, è obbligatorio anche per i responsabili o titolari dell’industria alimentare cioè coloro che gestiscono e controllano la sicurezza alimentare dell’azienda attraverso una sorveglianza sanitaria. Sono esonerati dal seguire un corso di formazione, invece, tutti coloro i quali hanno un titolo di studio specifico come i diplomati presso Istituti alberghieri o agrari, laureati in medicina e chirurgia, veterinaria, in biologia ecc.

Tale corso verterà su vari argomenti come i rischi e pericoli alimentari, gli obblighi e responsabilità del soggetto facente parte del settore alimentare, principi di pulizia e disinfezione degli ambienti di lavoro e attrezzature impiegate, modalità di conservazione e tracciabilità degli alimenti e altro. La relativa formazione ed esame finale, consentirà il rilascio dell’attestato HACCP. Nei casi in cui non si sia in possesso di tale attestato o l’azienda non provvede a redigere il documento, il datore di lavoro dell’azienda sarà tenuto al pagamento di un’ingente sanzione che può arrivare fino a 6000 euro nei casi in cui il piano HACCP sia irregolare o non aggiornato, oppure 3000 euro se vi è stata inosservanza dei principi fondamentali previsti dall’HACCP.

Valutazione del Rischio di Fulminazione

La valutazione del rischio di fulminazione rientra tra gli obblighi previsti dal Testo Unico per una azienda e per il datore di lavoro. Essa deve essere effettuata allo scopo di adottare tutte le misure necessarie a garantire la sicurezza sul lavoro e la protezione dei lavoratori dalle scariche atmosferiche. Il rischio fulminazione è un pericolo molto diffuso all’interno delle aziende, sopratutto durante le ore lavorative. Ecco perchè la valutazione è obbligatoria. Nello specifico, l’articolo 80 del D.Lgs. 81/08 prevede che il datore di lavoro provveda “affinché gli edifici, gli impianti, le strutture, le attrezzature, siano protetti dagli effetti dei fulmini con sistemi di protezione realizzati secondo le norme di buona tecnica”.

È bene precisare che la valutazione del rischio fulminazione non deve essere confusa con la valutazione del rischio elettrico, in quanto quest’ultima viene fatta per coloro che lavorano prossimità di fonti di energia elettrica e che corrono il rischio essere colpiti da una scarica di corrente elettrica. Invece, la fulminazione può causare ingenti danni alla struttura, ai vari impianti presenti e in alcuni casi gravi anche alle persone. Nella valutazione del rischio fulminazione, dunque, è necessario disporre di alcuni elementi essenziali atti a elaborare la valutazione che sono: caratteristiche della struttura, impianti, attrezzatura ed apparecchiature; caratteristiche di tipo ambientale quindi relativa densità dei fulmini nella zona dove è collocata la struttura; infine, l’ammontare in termini economici e sociali delle eventuali perdite, il relativo costo di riparazione e i danni sull’ambiente. La valutazione del rischio di fulminazione dovrà essere effettuata da una persona competente in materia salute e sicurezza sul lavoro e rientra nei piani generali di sicurezza.

Classificazione degli effetti della fulminazione

La nuova norma CEI EN 62305-2, in vigore da marzo 2013, definisce le modalità per effettuare tale valutazione e le diverse classificazione degli eventi che si collegano al rischio fulminazione e dei possibili effetti e danni annessi. È necessario, per prima cosa, stabilire le cause del danno così da conoscere anche le relative perdite e tipologie.
Le cause del danno vengono classificate con la lettera S e si suddivido in:

  • S1: fulmine sulla struttura;
  • S2: fulmine in prossimità della struttura;
  • S3: fulmine sulle linee entranti;
  • S4: fulmine in prossimità delle linee entranti

Invece, le tipologie di danno sono classificate con la lettera D:

  • D1: danno ad esseri viventi per elettrocuzione;
  • D2: fuoco, esplosioni, effetti chimici, distruzioni meccaniche e altri danni materiali;
  • D3: fallimento/malfunzionamento di sistemi elettronici a causa di sovratensioni.

Infine, le relative perdite vengono classificate con la lettera L e sono:

  • L1: perdita di vite umane (inclusi danni permanenti);
  • L2: perdita di servizi pubblici;
  • L3: perdita di patrimonio culturale insostituibile;
  • L4: perdita di valore economico (della struttura, del suo contenuto e/o dell’attività).

Per ogni perdita, inoltre, corrisponde un rischio specifico che viene identificato con la lettera R, la cui classificazione è molto simile a quella citata sopra cioè:

  • R1: rischio di perdita della vita di un soggetto;
  • R2: rischio perdita di servizi pubblici;
  • R3: rischio perdita di patrimonio culturale insostituibile;
  • R4: rischio perdita di valore economico.

La procedura per la valutazione rischio fulminazione

Il documento, come descritto sopra, è obbligatorio da parte del datore di lavoro e deve essere redatto da una persona competente in materia. Per farlo, bisognerà seguire tre passaggi fondamentali che sono: valutazione del rischio, confronto del rischio tollerabile, adozione laddove si pensi necessaria di un’adeguata attrezzatura atta a proteggere dai eventuali fulmini.

Nell’elaborazione di tale valutazione, è importante valutare il rischio di fulminazione diretta ed indiretta. Quindi, bisognerà tenere conto delle caratteristiche della struttura, quali:

  • Numero dei lavoratori;
  • Tipo di costruzione;
  • Contenuto all’interno della struttura;
  • Linee entranti;
  • Protezioni varie dai fulmini;
  • Pericolosità per l’ambiente in caso di eventuale fulminazione (ad esempio rilascio di emissioni radioattive, chimiche o biologiche).

In generale, la protezione dai fulmini (LP – lightning protection) si concretizza adottando un sistema di protezione (LPS – lightning protection system) atto a prevenire queste eventualità e delle opportune misure di protezione contro le scariche elettriche (SPM – surge protection measures). Dunque, tali verifiche devono tenere conto di tutti questi elementi affinché venga correttamente redatto il documento sulla valutazione del rischio di fulminazione.

Calcolo della probabilità di fulminazione

Quando deve essere effettuata la valutazione, è necessario calcolare le probabilità di fulminazione che una struttura può incorrere. La probabilità si calcola tenendo conto del numero di fulmini a terra in un anno al kilometri quadrato, indicato con la sigla NG. In passato, tale valore veniva indicato per ogni comune dell’Italia nella guida CEI 81-3. A partire dal 1 gennaio 2020, invece, è entrata in vigore la norma CEI EC IEC 62858, in cui si stabilisce che i dati raccolti devono risalire ad un periodo di osservazione di almeno dieci anni e il relativo valore NG deve essere aggiornato ogni cinque.

Ciò comporta due possibilità: se il nuovo valore è maggiore rispetto al precedente, bisognerà accertare l’incremento del rischio e confrontarlo con quello accettabile. Se invece, il nuovo valore è minore rispetto al precedente è opportuno redigere un’attestazione che confermi la validità del documento presente. Dunque, per una corretta valutazione del rischio fulminazione è fondamentale avere il dato NG aggiornato così da rivalutare il rischio. È, inoltre, importante effettuare un aggiornamento ogni cinque anni, così da valutare, in caso che il nuovo valore NG sia diverso da quello precedente, se procedere ad una nuova valutazione del rischio o confermare quella esistente.

Coordinatore della Sicurezza: nomina e requisiti

Tra le figure principali per la sicurezza all’interno dei cantieri vi è il Coordinatore della Sicurezza. Si tratta di un soggetto che stabilisce una sorte di collegamento tra progettisti, committenti, ditte ed operai, cioè tutte le parti coinvolte all’interno di cantieri temporanei o mobili. Vista l’importanza del ruolo che ricopre, è necessario che il Coordinatore della sicurezza abbia seguito un corso di formazione e il relativo aggiornamento periodico, per mantenere la qualifica ed aggiungere competenze. Se mancano questi due requisiti, tale ruolo non può essere svolto.

Nominare il coordinatore è obbligatorio quando all’interno di un cantiere vi sia la presenza di più imprese esecutrici, anche se quest’ultime non si trovano a svolger il lavoro contemporaneamente. L’art. 90 del Testo Unico stabilisce che, in questi casi, sia un obbligo del Committente o del Responsabile dei lavori delegato procedere con la nomina dei Coordinatori dotati di requisiti professionali adeguati al ruolo.

Tra i requisiti essenziali atti a ricoprire il ruolo di coordinatore per la sicurezza, è necessario:

  • Laurea Magistrale classi LM-4, da LM-20 a LM-35, LM-69, LM-73, LM-74;
  • Laurea specialista classi 4/S, da 25/S a 38/S, 77/S, 74/S, 86/S con attestazione comprovante l’espletamento di attività lavorativa rilasciata da datori di lavoro o committenti;
  • Laurea nelle classi 8,9,10,4 con attestazione comprovante l’espletamento di attività lavorativa nel settore delle costruzioni per almeno 2 anni, rilasciato da datori di lavoro o committenti.
  • Diploma di geometra, perito industriale, perito agrario o agrotecnico con attestazione dell’espletamento di attività lavorativa nel settore delle costruzioni per almeno 3 anni.

Oltre a questi titoli, come abbiamo detto, è necessario che il soggetto sia in possesso dell’attestato di frequenza ai corsi di formazione in materia di sicurezza sul lavoro. Dopo aver superato il test di verifica finale, verrà rilasciato l’attestato che avrà una validità di cinque anni.

Le mansioni del Coordinatore per la Sicurezza

Le mansioni che un Coordinatore per la Sicurezza è tenuto a svolgere sono vari e si distinguono in base alla fase di pertinenza. Essenzialmente vengono distinti in:

  • Redigere il piano di coordinamento per la sicurezza, allo scopo di tutelare i lavoratori, pretendendo eventuali rischi che potrebbero danneggiare la loro salute. In questo caso si parlerà di Coordinatore della sicurezza in fase di Progettazione (CSP);
  • Monitorare l’andamento del progetto, cioè deve controllare se l’azienda e i lavoratori stiano seguendo appieno le regole previste nel piano del coordinamento per la sicurezza. In questo caso, invece, il coordinatore verrà identificatore come oordinatore della sicurezza in fase di Progettazione (CSE). Egli deve anche comunicare l’inadempienza all’ASL e alla direzione territoriale del lavoro nei casi in cui il committente o il responsabile dei lavori non adotti alcun provvedimento.

Queste funzioni possono essere svolte da due persone differenti o dalla stessa. L’unica differenza tra le due figure è che il Coordinatore della sicurezza in fase di Progettazione deve essere nominato nel momento in cui si affida l’incarico al progettisti, mentre il Coordinatore della sicurezza in fase di Esecuzione viene nominato nel momento dell’affidamento dei lavori ai realizzatori dell’opera.

Sebbene, il Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione (RSPP) deve essere sempre nominato e deve essere una figura presente all’interno di qualsiasi azienda con un diploma e una formazione adeguata, il coordinatore per la Sicurezza è una figura obbligatoria solo nei casi di cantiere edile con un titolo di studio affine al settore di competenza.

Chi nomina il Coordinatore per la sicurezza?

L’articolo 90 del Testo Unico sulla Sicurezza sul lavoro stabilisce che nei cantieri in cui è prevista la presenza di due o più imprese esecutrici, il committente o il responsabile dei lavori deve scegliere:

  • Il coordinatore per la progettazione contestualmente all’affidamento dell’incarico.
  • Il coordinatore per l’esecuzione dei lavori prima dell’affidamento dei lavori.

Inoltre, va precisato, che se in possesso dei requisiti previsti dalla legge, sia il committente che il responsabile dei lavori possono svolgere le funzioni di CSP e CSE.

Compreso quanto sia indispensabile questa figura all’interno di questa figura per prevenire i rischi di incidente all’interno di un cantiere, è bene ribadire quanto sia necessario non solo seguire il corso di formazione ma anche un corso di aggiornamento, ogni cinque anni, delle durata massima di 40 ore. Il corso di aggiornamento viene suddiviso in cinque moduli e ognuno verterà su diversi argomenti.

Il corso di formazione ha la durata di 120 ore, con un test finale sulle competenze acquisiti e il conseguente rilascio di un attestato di partecipazione. Mentre il corso di aggiornamento sarà di 40 ore e può essere seguito anche in modalità e-Learning.

Attestati di sicurezza: come riconoscere la validità

La sicurezza sul posto di lavoro è diventata, sopratutto negli ultimi anni, un tema di estrema importanza e su cui la Legge italiana ha emanato una precisa normativa con il D.Lgs. 81/2008, rinnovando la legge 626/1994, affinché i lavoratori venissero tutelati in maniera adeguata. Sono tante le aziende che offrono corsi sulla sicurezza sul lavoro con relativo rilascio dell’attestato. Tuttavia, può succedere che quest’ultimi siano falsi e quindi non validi.

L’attestato è un documento rilasciato da un’azienda o ente di formazione, dopo che il soggetto abbia terminato un percorso formativo sulla sicurezza sul lavoro. Lo scopo di tale documento è quello di certificare che la formazione del soggetto terzo è avvenuta secondo le disposizioni di Legge vigenti, a volte anche in relazione al superamento di una prova d’esame.

Ricordiamo che il Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro prevede che il lavoratore partecipi a questo tipo di corsi di formazione in base al livello di rischio della propria mansione. Per essere considerato valido a livello nazionale, gli attestati di sicurezza devono riportare le seguenti diciture:

  • I dati anagrafici del soggetto formatore;
  • Nome, cognome e codice fiscale del partecipante al corso;
  • Normativa di riferimento;
  • La tipologia di corso seguito, settore di appartenenza e indicazione della durata;
  • Il periodo e il luogo di svolgimento del corso;
  • Firma del responsabile del progetto formativo;
  • Numero (con seriale progressivo) dell’attestato;
  • Ad ulteriore conferma della loro validità, è riportato un QR code che indirizza a una pagina web di conferma.

Attestati falsi: quali sono i rischi?

Formare i propri lavoratori è sia un obbligo che un vantaggio per il datore di lavoro, in quanto avrà così a sua disposizione soggetti efficienti e preparati ad ogni evenienza per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda. In aggiunta di ciò, il corso contribuirà all’identificazione e alla prevenzione dei rischi sul posto di lavoro riducendo incidenti.

Può capitare, tuttavia, che all’interno di alcune aziende il datore di lavoro non offra alcuna formazione ai propri dipendenti e proceda all’acquisto di attestati falsi. I motivi ti tale comportamento, assolutamente sbagliato, possono essere vari: perchè non crede nella formazione, non vuole sottrarre tempo all’attività lavorativa quotidiana, non intende investire denaro in questi determinati corsi.

Ovviamente, come abbiamo visto, tale comportamento è errato e il datore di lavoro che accetta falsi attestati sulla Sicurezza sul Lavoro rischia diverse penali, tra le quali:

  • Arresto fino a quattro mesi e una multa di oltre cinque mila euro per violazione dell’obbligo di formazione prevista dalla Legge. Nel caso in cui la violazione di tale obbligo riguarda più di cinque lavoratori, gli importi saranno raddoppiati. Se i lavoratori non formati superano il numero dieci, gli importi verranno triplicati.
  • Il datore di lavoro rischia di essere denunciato e dovrà rispondere dei reati di lesione colposa o omicidio colposo, a seconda che da un incidente derivi una malattia grave o, nei casi peggiori, il decesso.
  • Il datore di lavoro può essere denunciato dalle autorità territorialmente competenti. La penale riguarda sia il datore di lavoro sia l’ente che ha rilasciato il certificato falso.
  • Le autorità competenti possono richiedere all’ente che ha emesso l’attestato una copia della documentazione per l’emissione della certificazione del percorso formativo.

Come riconoscere un attestato falso

La presenza di tanti corsi che offrono tali attestati, rende più difficile il compito di garantire la validità di un attestato. Negli ultimi anni, infatti, sono sempre più in aumento i casi di attestati veri ma fotocopiati e modificati: cambio dei dati anagrafici ma con gli stessi dati. In questo caso, un modo per verificare la validità dell’attestato in questione, è quello di controllare il numero di rifermento dell’ente che lo ha emesso. Se i dati anagrafici non risultato all’ente, allora si tratta di un falso.

Esistono diversi aspetti da tenere in considerazione per riconoscere se un attestato è vero o falso. Questi aspetti sono:

  • La denominazione dell’ente che ha erogato il corso;
  • I dati anagrafici del partecipante;
  • La normativa di riferimento a cui fa seguito l’obbligo di formazione;
  •  La tipologia di corso da seguire;
  •  La durata del corso;
  • Quando sono state seguite le lezioni;
  • La firma del responsabile dei corsi;
  • Il numero dell’attestato;

Questi sono tutti elementi che servono ad identificare se l’attestato sia riconosciuto legalmente. Dunque, è importante tenere conto di questi elementi affinché si possa riconoscere immediatamente un attestato falso.

Videosorveglianza sul posto di lavoro: quando si può installa

Con l’aumentare dei sistemi di sicurezza sia all’interno delle abitazione che nei luoghi di lavoro, è cresciuta l’installazione di sistemi di videosorveglianza. Sebbene possa sembrare una situazione positiva dal punto di vista della sicurezza sul lavoro, bisogna anche tener conto delle implicazioni che sono sorte negli ultimi anni. In particolare, le nuove tecnologie possono potenzialmente porre un forte controllo sull’attività lavoratori, ma anche sulla vita privata del lavoratore divenendo, in certi casi, strumenti invasivi che vanno a comprimere la privacy del soggetto filmato.

Quando si parla di videosorveglianza sul posto di lavoro, ci si riferisce anche a due elementi essenziali: la privacy e i diritti dei lavoratori, a cui si legano le rispettive normative. L’art. 4, comma 1, L. 300/70 prevede la possibilità per il datore di lavoro di poter installare in azienda degli impianti audiovisivi, per motivi di:

  • Sicurezza del patrimonio aziendale: tutelare l’azienda, al fine di evitare furti e rapine da parte dei dipendenti o da terzi;
  • Organizzazione e produzione: come la verifica sul funzionamento dei macchinari presenti o per l’accesso dei clienti o soggetti vari;
  • Sicurezza del lavoro: ad esempio aiutano a prevedere un soccorso tempestivo in caso di infortunio sul posto di lavoro, oppure a tenere sotto controllo l’attività nel caso il lavoratore si trovi in zone isolate ecc.

Tutto ciò significa che tali impianti di videosorveglianza non possono essere utilizzati per controllare l’attività svolta dai lavoratori oppure i luoghi adibiti alle pause pranzo. Pertanto, tali telecamere possono essere collocate all’esterno degli edifici, nei parcheggi e nelle vie di accesso o uscita, in prossimità di impianti pericolosi, attrezzatura e depositi di merce ecc.

Videosorveglianza in azienda: cosa dice la normativa

Quando si affronta il tema della protezione dei dati sensibili, la prima cosa da chiedersi, qualunque sia il contesto di riferimento, è chi sia il titolare del trattamento. Il trattamento dei dati personali mediante videosorveglianza si innesca con il principio di responsabilizzazione introdotto dal GDPR del 2016, ai sensi del quale il titolare del trattamento è responsabile delle scelte e delle azioni messe in campo (art. 5.2 GDPR) e deve darne conto a tutti i soggetti ai quali appartengono i dati trattati, nonché in determinati casi al Garante per la protezione dei dati personali e all’autorità giudiziaria.

Questo significa che ogni scelta presa ha una responsabilità. Si diventa, in sostanza, unico centro di imputazione per qualsiasi trattamento non a norma di legge. In questo caso specifico, quando si parla di installazione di sistemi di videosorveglianza all’interno delle aziende, oltre alle regole che coincidono con la tutela della privacy previste dal GDPR, vengono adottate anche delle regole a tutela del lavoratore.

L’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori pone il divieto generale del controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. “Le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non proibiscono i cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l’esistenza di un divieto probatorio”.

Videosorveglianza in azienda: la procedura

Affinché in azienda si possa procedere all’installazione delle videocamere di sorveglianza, è necessario che il datore di lavoro effettui una particolare procedura che si caratterizza di:

  • Una comunicazione preventiva alla Rappresentazione Sindacale Unitaria (RSU) o alla Rappresentanza Sindacale Aziendale (RSA). Il datore dovrà far sapere il luogo e le modalità dove vorrà procedere all’installazione delle telecamere. Se manca l’accordo con i sindacati oppure in azienda non è presente una rappresentanza sindacale, il datore di lavoro potrà procedere con una richiesta alla sede territorialmente competente dell’INL (Ispettorato Nazionale del Lavoro) corredata dagli estratti del DVR, dove si attesta che gli strumenti di controllo costituiti dalla videosorveglianza è misura necessaria e adeguata per ridurre i rischi incidenti sul posto di lavoro, a tutela della salute e sicurezza dei lavoratori.
  • La nomina di un addetto: egli dovrà gestire i dati registrati dall’impianto di videosorveglianza al fine di tutelare adeguatamente la privacy di tutti coloro che verranno ripresi. È bene precisare che le immagini catturate saranno conservate per un massimo di 24 ore dalla rilevazione.
  • Una preventiva informazione: i lavoratori dovranno essere informati per tempo, tramite apposita segnaletica o firma di un documento.

Il mancato rispetto di queste procedure comporta l’inutilizzabilità dei filmati in un eventuale situazione di necessità, quali ad esempio il processo per licenziamento. In questi casi bisognerà produrre altre prove quali testimonianze documenti ed altro. Inoltre, la Corte di Cassazione, con sentenza n.3255/2020, ha stabilito che il datore di lavoro può decidere di utilizzare un impianto di videosorveglianza anche per reprimere comportamenti illegittimi da parte di un determinato lavoratore, soprattutto se mette a rischio il patrimonio aziendale.

Near Miss: il mancato infortunio che cos’è?

Con il termine inglese “Near miss” si vuol definire letteralmente “mancato sinistro” o “mancato incidente” ed in particolare riguarda un qualsiasi evento che sul posto di lavoro potrebbe generare un incidente o infortunio e quindi un danno per la salute del lavoratore. Dunque, il mancato infortunio è essenzialmente quello che si viene a determinare in situazioni improvvise ma senza conseguenze negative.

La norma UNI ISO 45001:2018 identifica come infortunio mancato, un incidente che non abbia causato lesioni o malattie, ma che possiede tutte le caratteristiche per essere considerata una situazione potenzialmente a rischio. Stando a quanto detto, sia l’analisi che la risoluzione dei potenziali rischi emersi dai near miss possono essere usati come potenziali dati per la prevenzione e la protezione dei lavoratori da aggiungere alle strategie di valutazione dei rischi.

È proprio su queste tematiche che l’Inail ha realizzato un documento dal titolo “Gestione degli incidenti procedura per la segnalazione dei Near Miss”, con l’obiettivo di incrementare la cultura della sicurezza nelle aziende. Scopriamo insieme, nel dettaglio, quali potrebbero essere le cause che determinano il verificarsi di tali eventi.

Quali sono le cause di un Near miss?

I fattori scatenanti che danno origine ai mancati infortuni possono essere vari e di natura diversa. Nel dettaglio, si possono distinguere tre categorie, ovvero:

  • Fattori legati alla gestione manageriale: mancato rispetto delle prescrizioni o procedure di lavoro;
  • Fattori legati all’organizzazione aziendale: causati da comportamenti pericolosi;
  • Fattori di natura immediata: sono determinati da carenze strutturali, tecniche e organizzative.

Per capire meglio da cosa può essere determinato un mancato infortunio, consideriamo un near miss nel campo dell’edilizia. Consideriamo un lavoratore che opera in altezza, ad esempio su un’impalcatura. Quest’ultimo durante la sua attività lavorativa, poggia un attrezzo su un piano di lavoro privo di protezione per la caduta. L’attrezzo in questione finisce per cadere accidentalmente dall’impalcatura ma, fortunatamente, non reca danni gravi ai lavoratori presenti. Questo è ciò che viene definito un mancato infortunio, perchè in circostanze più spiacevoli avrebbe potuto causare conseguenze ben più gravi se non addirittura letali.

Ovviamente, il campo dell’edilizia è solo un esempio dei tanti possibili settori in cui si potrebbe verificare un near miss. Purtroppo, i mancati incidenti sono all’ordine del giorno e possono accadere anche in ambienti e cantieri ritenuti a norma.

Mancato incidente: come gestirlo

Un mancato incidente può mettere in luce criticità improvvise sul posto di lavoro, in base a fattori di tipo organizzativo, comportamentale e tecnico. Sapere in cosa consistono i near miss permette di individuare le linee di azione da adottare per prevenire o ridurre gli infortuni sul lavoro, cercando così di evitare che tali situazioni possano ripresentarsi.

La procedura di segnalazione e analisi degli infortuni mancati avviene su base volontaria. La segnalazione è un obbligo del lavoratore, anche se il Testo Unico non prevede alcuna sanzione in caso di mancate segnalazioni, tuttavia ricordiamo che l‘articolo 20, comma 1, lettera e, sancisce che i lavoratori devono segnalare […] qualsiasi eventuale condizione di pericolo di cui vengono a conoscenza.

Pertanto, si tratta di un documento che serve a registrare e comunicare gli incidenti non dannosi con l’obiettivo di:

  • Raccogliere, analizzare e verificare gli incidenti sul posto di lavoro che riguardano il personale, gli appaltatori e gli strumenti, su cui l’azienda risponde in maniera giuridica con modulistica appropriata;
  • Valutare le situazioni di non conformità o criticità organizzative, tecniche e comportamenti che posso causare un possibile incidente sul posto di lavoro;
  • Garantire un’adeguata segnalazione con tempi di risposta brevi sia nella fase iniziale che in quella finale della segnalazione;
  • Individuare e applicare le giuste misure preventive.

Attraverso questo documento sarà possibile evidenziare le caratteristiche dell’evento potenzialmente dannoso. Gli elementi importanti da inserire all’interno di tale modulo sono: nome dell’azienda, dove si è verificato il mancato infortunio; la data e l’ora; la descrizione dell’evento e il potenziale rischio; le possibili cause e soluzioni. Per rendere effettivo il documento e assicurarsi che il mancato incidente possa non verificarsi più, è necessaria la partecipazione di tutte le componenti dell’impresa, affinché si possa avere dei feedback tempestivi e una condivisione delle problematiche.

Soggetti coinvolti nella gestione del near miss

Le figure coinvolte nella gestione del near miss possono essere suddivise in alcune categorie, che sono:

  • SCI cioè soggetto coinvolto nell’incidente, che può essere un dipendente dell’azienda o della ditta appaltatrice oppure un qualsiasi soggetto che in quel momento si trovava in prossimità del luogo dove è avvenuto il mancato infortunio;
  • LESI cioè il lavoratore che effettua la segnalazione che può essere il soggetto coinvolto o meno;
  • GRI- gruppo risoluzione incidenti suddiviso, a seconda del reparto coinvolto, da risorse umane (RU) e/o dirigente, da ufficio acquisti (UA) e ufficio tecnico (UT). Si occupa di valutare la risoluzione degli incidenti qualora il GRTVI non sia stato in grado di risolvere l’incidente in reparto e, conseguentemente, verifica la concreta efficacia delle soluzioni adottate;
  • GRTVI – gruppo di ricezione, trasmissione, valutazione degli incidenti: è composto da RSPP, RLS, preposto/dirigente e CSE nel caso di cantieri. Riceve la segnalazione dell’incidente, valuta e adotta le necessarie misure correttive;
  • DL – datore di lavoro: riceve le comunicazioni da parte del GRI e verifica l’efficacia delle soluzioni da adottare nel caso di incidente non risolvibile in reparto;
  • Incaricato: soggetto che non fa parte del GRTVI, riceve la segnalazione dal LESI e la comunica al GRTVI stesso, provvedendo poi alla registrazione e archiviazione dei documenti.